
Gli antichi, com'è noto, salvo in condizioni particolari, erano soliti bere il vino stemperato con l'acqua in percentuale assai maggiore del vino stesso. Ciò rendeva possibile evitare l'ubriachezza, pur bevendo in quantità maggiore e restare coscienti controllando la situazione circostante.
Nella prima satira di Giovenale (55 ss.), compare un personaggio che sicuramente beve vino stemperato, perché ha tutto l'interesse a restare sobrio e a tenere la situazione sotto controllo: cum leno accipiat moechi bona, si capiendi/ius nullum uxori, doctus spectare lacunar/doctus et ad calicem vigilanti stertere naso ["quando (comportandosi come) un ruffiano si prende i beni dell'amante della moglie se essa non ha la 'capacità giuiridica' di ereditare (presso i Romani, solo chi aveva figli poteva ereditare. Questo marito compiacente, evidentemente, aveva figli da un precedente matrimonio: quindi lasciava che l'amante, che immaginiamo maturo e danaroso, le 'pomiciasse' la moglie: così l'amante danaroso l'avrebbe adottato per trasmettere le sue ricchezze alla di lui amante, tramite il di lei marito), lui che ha ben imparato a guardare il soffitto ed a russare col naso ben sveglio, durante una bevuta"]. Questi tipi di mariti, presenti in ogni epoca, erano diffusi anche nell'antichità, se è vero che Cicerone ci parla di un Cipius, che era solito dire non omnibus dormio ("non dormo mica per tutti").
Ma il vino non veniva, ahimè, stemperato solo con l'acqua. Sempre Giovenale, nella medesima satira (69 ss.), ci presenta questa scena: Occurrit matrona potens, quae molle Calenum:/porrectura viro miscet sitiente rubetam/instituitque rudes melior Lucusta propinquas/per famam et populum nigros efferre maritos ["Si fa avanti una gran dama che, nell'atto di porgere l'amabile vino di Cales al marito assetato, vi mescola (bava di) rospo e insegna alle inesperte parenti, da quella Locusta (famosa avvelenatrice 'su commissione' di epoca neroniana) ancora più abile che è, a seppellire i mariti anneriti (dall'effetto del veleno)]".
Il vino schietto veniva usato solo in condizioni particolari. Marziale, ad esempio, in un suo epigramma (3, 53, 1 s.) ci dice: Callidus inposuit nuper mihi copo Ravennae:/cum peterem mixtum, vendidit ille merum ("un furbo oste, poco tempo fa, a Ravenna, mi fregò: gli avevo chiesto vino annacquato e quello mi vendette vino puro"). Essendo Ravenna zona portuale e, di conseguenza, povera d'acqua, l'acqua era più preziosa del vino e l'oste birbone rifila ai clienti il merum (vino schietto).
Salvo questi casi particolari, il merum era prerogativa dei re, che potevano ubriacarsi a piacere e se ne servivano per scopi 'politici'. Dice Orazio nell'ars poetica (434 ss.): Reges dicuntur multis urgere culullis/et torquere mero, quem perspexisse laborant:an sit amcitia dignus.("Si dice che i re incalzino con grandi tazze e torturino col vino schietto colui che vogliono vedere se sia degno della loro amicizia"). Si sa che in vino veritas e i re sottoponevano alla 'tortura del vino' se nutrivano dubbi sulle reali intenzioni di qualcuno: l'ubriaco rivela la sua vera personalità e non può mentire. Sappiamo da Diodoro Siculo e da Svetonio che Agatocle, tiranno di Siracusa, e l'imperatore Tiberio ricorsero a questo sistema.
I re però si concedevano il vino schietto e si ubriacavano alla grande. Narra Seneca (de ira (14, 1 ss.), per mettere in risalto il servilismo di un cortigiano che riprendeva Cambise, re di Persia, di essere troppo dedito al vino, cosa indegna per un re che dovrebbe essere di esempio a tutti, che Cambise, vedendo entrare nella sala del banchetto il figlio di colui che lo rimproverava, prese l'arco e con una freccia spaccò il cuore del ragazzo. Poi tolse la freccia dal cuore e chiese al padre del ragazzo morto satisne certam manum haberet ("se aveva la mano abbastanza ferma"). E il padre del ragazzo ucciso, avvezzo alla piaggeria ed al servilismo negavit Apollinem potuisse certius mittere ("disse che Apollo non sarebbe stato in grado di lanciare con maggiore precisione"). Ma i re sono pochi e sempre Seneca, nel medesimo scritto (3, 13, 5) ci informa che quelli che non possono fare ciò che vogliono e vinum male ferunt ("tollerano male il vino") et ebrietatis suae temeritatem ac petulantiam metuunt, mandant suis ut e convivio auferantur; intemperantiam in morbo suam experti parere ipsis in adversa valetudine vetant ("e che della propria temerarietà e ubriachezza hanno paura, dànno incarico ai familiari di portarli via dal banchetto; coloro che hanno sperimentato la propria sfrenatezza nella malattia, vietano che si ubbidisca loro quando stanno male").
Anna Tiziana Mittica
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