mercoledì 29 novembre 2006

DALL'ABBUFFATA ALLA MORTE (PASSANDO PER IL BAGNO).

Mangiare in maniera eccessiva è sempre sconsigliabile. A volte può accadere di assistere (in ristoranti o in case private) alla perdita dei sensi, da parte di una persona, per la grande quantità di cibo ingurgitato: il sangue, impegnato nella digestione, abbandona la regione cerebrale e il 'mangione' sviene. Occorre allora sdraiarlo in posizione completamente orizzontale e fare in modo che lo stomaco 'si liberi' per consentire al sangue, per via della nuova posizione assunta dal corpo e della liberazione del sovraccarico dello stomaco, di riprendere a irrorare il cervello.
Ancora peggio (basta sfogliare i quotidiani d'estate) è recarsi a fare il bagno in mare, in un lago o in un fiume, dopo una cospicua mangiata. Ma, senza scomodare mari, laghi e fiumi, è sufficiente, talvolta, fare un semplice bagno, quando la digestione è ben lungi dall'essere compiuta. E la cosa doveva raggiungere apici drammatici nell'antichità, quando né la gente comune né i medici conoscevano e si ponevano il problema, all'epoca in cui Catone il censore riconosceva nel cavolo (brassica) la panacea di tutti i mali. Il fatto divenne una situazione topica della satira romana, specchio dei vizi dell'umanità. Non è dato sapere se la morte dopo o durante il bagno a digestione incompiuta fosse presente in Lucilio (2° secolo a. C.), la cui opera ci è pervenuta frammentaria, ma il fatto che essa sia presente nei tre satirici successivi (Orazio, contemporaneo di Augusto, Persio, di epoca neroniana e Giovenale, che nasce alla fine dell'impero di Nerone e muore ottantenne verso la seconda metà del 2° secolo d. C.) farebbe propendere per una risposta affermativa: i vizi umani e le loro conseguenze non conoscono età.
I poeti satirici non sono certo dei pensatori sistematici.
La filosofia spicciola di Orazio praticamente si risolve come segue: ognuno, per quanto riguarda se stesso, può fare ciò che vuole, purché non rechi danno alla società, a tal punto da arrivare a dire nell'ars poetica (466 s):
Sit ius liceatque perire poetis;
invitum qui servat, idem facit occidenti.
"Si lasci al poeta il diritto e la libertà di togliersi la vita. Chi lo scampa contro sua voglia è come se l'uccidesse".
Nei riguardi del cibo e di certe sue conseguenze, Orazio mostra piena coerenza (epist. 1, 6, 56 s.; 61 ss.):
Si bene qui cenat bene vivit, lucet, eamus,
quo ducit gula: piscemur, venemur...
"Se la felicità si riduce a mangiare bene, appena si fa giorno andiamo dove ci guida la gola; alla pésca, alla caccia..."
Crudi tumidique lavemur,
quid deceat, quid non obliti
remigium vitiosum Ithacensis Ulixei,
cui potior patria fuit interdicta voluptas.
Si Mimnermus, uti censet, sine amore iocisque
nil est iucundum, vivas in amore iocisque.

"Quindi, col cibo in gola e lo stomaco rigonfio, rechiamoci a fare il bagno, dimentichi di ciò che conviene e di ciò che non conviene, come la ciurma viziosa di Ulisse di Itaca, per cui più della patria, valse un piacere proibito (allusione ai compagni di Ulisse, che mangiano il loto e dimenticano patria e doveri (Od. 9, 94 ss.) o uccidono e divorano i buoi del Sole, contro il divieto di Ulisse (Od. 12, 320 ss.). Se, come pensa Mimnermo (poeta greco del 7° secolo a. C., i cui canti avevano per oggetto il piacere e l'amore), non c'è diletto al mondo senza l'amore e i trastulli, tu passa il tuo tempo tra l'amore e i trastulli".
E' un esempio insigne della Stimmung di Orazio ormai anziano, disposto a tollerare le umane debolezze: l'importante, per lui, è non tradire la propria natura.
Passando ora a Persio, austero seguace della filosofia stoica, ci troviamo di fronte a un passo altamente espressionistico (3, 94 ss.):
"Heus bone, tu palles.""Nihil est." Videas tamen istuc
quidquid id est: surgit tacite tibi lutea pellis."
"At tu deterius palles. Ne sis mihi tutor:
iam pridem hunc sepeli: tu restas.""Perge, tacebo."
Turgidus hic epulis atque albo ventre lavatur,
gutture sulpureas lente exhalante mefites.
Sed tremor inter vina subit calidumque trientem
excutit e manibus, dentes crepuere retecti,
uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris.
Hinc tuba, candelae, tandemque beatulus alto
conpositus lecto crassisque lutatus amomis
in portam rigidas calces extendit. At illum
hesterni capite induto subiere Quirites.

"Ehi amico, sei pallido.""Non è nulla.""Stacci attento, sia quel che sia: la pelle ti si fa gialliccia a poco a poco.""Tu sei più pallido ancora: non farmi il tutore ! E' un pezzo che ho sepolto il mio: ora mi resti tu.""Fa' come vuoi: starò zitto." Ed eccolo che prende il bagno gonfio di cibo e con il ventre giallastro, mentre la sua gola esala lentamente fiati pestilenziali: ma mentre è intento a bere lo afferra un tremito che gli fa cadere di mano il bicchiere pieno di vino tiepido: crocchiano i denti scoperti e dalle labbra pendule gli escono unti bocconi. Poi suono di trombe, fiaccole ed infine il nostro signorino, ben composto nel catafalco e madido di grassi unguenti, stende i piedi irrigiditi verso la porta (secondo l'uso romano di esporre i morti con i piedi verso la porta perché i familiari potessero evitare l'influsso funesto dei 'fantasmi'): e i Quiriti di un giorno col berretto in testa (gli schiavi affrancati dal padrone defunto, nel testamento-e divenuti perciò Quiriti, cioè cittadini romani-hanno indossato da un solo giorno il pilleus, berretto di feltro segno della libertà) lo portano via."
Quella del nostro 'mangione', a differenza di quanto accadeva in Orazio, è tutt'altro che una scelta ma quasi una punizione del destino. Persio, che pure era ricchissimo, lo chiama beatulus (signorino) e beatus, che originariamente significa 'felice' (felix significa 'fortunato'), a partire dalla sua epoca, vale 'ricco', in quanto l'unica felicità è costituita dai soldi. Negli ultimi versi, poi, si ha una 'carrellate all'indietro', per cui il cadavere è l'ultima scena; esso è visto dalla prospettiva di chi entra e sente le trombe, vede le candele, entra e vede, come ultima cosa il morto, di cui scorge sùbito i calcagni rivolti verso la porta.
Figuriamoci la gioia feroce del poveraccio Giovenale travagliato da problemi di sopravvivenza quotidiana, che descrive la fine dell'ingordo riccone (1, 136 ss.):
vacuisque toris tantum ipse iacebit.
Nam de tot pulchris et latis orbibus et tam
antiquis una comedunt patrimonia mensa.
Nullus iam parasitus erit. Sed quid ferat istas
luxuriae sordes ? Quanta est gula quae sibi totos
ponit apros, animal propter convivia natum !
Poena tamen praesens, cum tu deponis amictus
turgidus et crudum pavonem in balnea portas.
Hinc subitae mortes atque intestata senectus.
It nova nec tristis per cunctas fabula cenas;
ducitur iratis plaudendum funus amicis.
"divorerà i migliori prodotti dei boschi e del mare e si sdraierà, lui solo, sui divani vuoti. Infatti questa gente, tra tante mense belle, spaziose e antiche, si mangia dei patrimoni interi su una tavola solitaria ! Non ci saranno più parassiti ! Ma chi potrebbe tollerare questi lussi meschini ? Quanto è grande la gola che imbandisce per sé sola interi cinghiali, selvaggina nata per i grandi conviti ? Ma ecco la punizione, quando tu così gonfio deponi i panni e porti nel bagno un pavone non digerito. Di qui le morti improvvise di vecchi che non hanno fatto testamento. La notizia inaspettata e allegra fa il giro di tutti i conviti: si celebra il funerale a cui gli amici, pur nel disappunto (gli amici sono adirati: la morte improvvisa del riccone ha impedito loro di essere ricordati nel testamento) applaudiranno."
Fortunatamente, questa è la fine di qualche 'mangione': 'andare a fare il bagno" e 'andare in bagno' non sono la stessa cosa. E questa seconda possibilità è assai meno letale, anche se può causare rincrescimento e rimpianto, come testimonia un epigramma del poeta bizantino Agazia (6° secolo d. C.), ispiratogli dalla contemplazione di una latrina di Smirne:
I sogni tutti dei mortali
ed i loro cibi squisiti
qui espulsi, hanno perduto
il fascino primiero.
I fagiani ed i pesci,
le preziose miscele nei mortai,
le merende di ogni sorta
si mutano, quivi, in sterco.
Il ventre si libera di tutto
ciò che la gola vorace ha inghiottito,
così che alfine l'uomo vede
che, nel suo folle orgoglio,
ha speso molto oro per nient'altro
che fango.
Anna Tiziana Mittica

VINO STEMPERATO E VINO SCHIETTO. EFFETTI DELL’UBRIACHEZZA.



Gli antichi, com'è noto, salvo in condizioni particolari, erano soliti bere il vino stemperato con l'acqua in percentuale assai maggiore del vino stesso. Ciò rendeva possibile evitare l'ubriachezza, pur bevendo in quantità maggiore e restare coscienti controllando la situazione circostante.
Nella prima satira di Giovenale (55 ss.), compare un personaggio che sicuramente beve vino stemperato, perché ha tutto l'interesse a restare sobrio e a tenere la situazione sotto controllo: cum leno accipiat moechi bona, si capiendi/ius nullum uxori, doctus spectare lacunar/doctus et ad calicem vigilanti stertere naso ["quando (comportandosi come) un ruffiano si prende i beni dell'amante della moglie se essa non ha la 'capacità giuiridica' di ereditare (presso i Romani, solo chi aveva figli poteva ereditare. Questo marito compiacente, evidentemente, aveva figli da un precedente matrimonio: quindi lasciava che l'amante, che immaginiamo maturo e danaroso, le 'pomiciasse' la moglie: così l'amante danaroso l'avrebbe adottato per trasmettere le sue ricchezze alla di lui amante, tramite il di lei marito), lui che ha ben imparato a guardare il soffitto ed a russare col naso ben sveglio, durante una bevuta"]. Questi tipi di mariti, presenti in ogni epoca, erano diffusi anche nell'antichità, se è vero che Cicerone ci parla di un Cipius, che era solito dire non omnibus dormio ("non dormo mica per tutti").
Ma il vino non veniva, ahimè, stemperato solo con l'acqua. Sempre Giovenale, nella medesima satira (69 ss.), ci presenta questa scena: Occurrit matrona potens, quae molle Calenum:/porrectura viro miscet sitiente rubetam/instituitque rudes melior Lucusta propinquas/per famam et populum nigros efferre maritos ["Si fa avanti una gran dama che, nell'atto di porgere l'amabile vino di Cales al marito assetato, vi mescola (bava di) rospo e insegna alle inesperte parenti, da quella Locusta (famosa avvelenatrice 'su commissione' di epoca neroniana) ancora più abile che è, a seppellire i mariti anneriti (dall'effetto del veleno)]".
Il vino schietto veniva usato solo in condizioni particolari. Marziale, ad esempio, in un suo epigramma (3, 53, 1 s.) ci dice: Callidus inposuit nuper mihi copo Ravennae:/cum peterem mixtum, vendidit ille merum ("un furbo oste, poco tempo fa, a Ravenna, mi fregò: gli avevo chiesto vino annacquato e quello mi vendette vino puro"). Essendo Ravenna zona portuale e, di conseguenza, povera d'acqua, l'acqua era più preziosa del vino e l'oste birbone rifila ai clienti il merum (vino schietto).
Salvo questi casi particolari, il merum era prerogativa dei re, che potevano ubriacarsi a piacere e se ne servivano per scopi 'politici'. Dice Orazio nell'ars poetica (434 ss.): Reges dicuntur multis urgere culullis/et torquere mero, quem perspexisse laborant:an sit amcitia dignus.("Si dice che i re incalzino con grandi tazze e torturino col vino schietto colui che vogliono vedere se sia degno della loro amicizia"). Si sa che in vino veritas e i re sottoponevano alla 'tortura del vino' se nutrivano dubbi sulle reali intenzioni di qualcuno: l'ubriaco rivela la sua vera personalità e non può mentire. Sappiamo da Diodoro Siculo e da Svetonio che Agatocle, tiranno di Siracusa, e l'imperatore Tiberio ricorsero a questo sistema.
I re però si concedevano il vino schietto e si ubriacavano alla grande. Narra Seneca (de ira (14, 1 ss.), per mettere in risalto il servilismo di un cortigiano che riprendeva Cambise, re di Persia, di essere troppo dedito al vino, cosa indegna per un re che dovrebbe essere di esempio a tutti, che Cambise, vedendo entrare nella sala del banchetto il figlio di colui che lo rimproverava, prese l'arco e con una freccia spaccò il cuore del ragazzo. Poi tolse la freccia dal cuore e chiese al padre del ragazzo morto satisne certam manum haberet ("se aveva la mano abbastanza ferma"). E il padre del ragazzo ucciso, avvezzo alla piaggeria ed al servilismo negavit Apollinem potuisse certius mittere ("disse che Apollo non sarebbe stato in grado di lanciare con maggiore precisione"). Ma i re sono pochi e sempre Seneca, nel medesimo scritto (3, 13, 5) ci informa che quelli che non possono fare ciò che vogliono e vinum male ferunt ("tollerano male il vino") et ebrietatis suae temeritatem ac petulantiam metuunt, mandant suis ut e convivio auferantur; intemperantiam in morbo suam experti parere ipsis in adversa valetudine vetant ("e che della propria temerarietà e ubriachezza hanno paura, dànno incarico ai familiari di portarli via dal banchetto; coloro che hanno sperimentato la propria sfrenatezza nella malattia, vietano che si ubbidisca loro quando stanno male").

Anna Tiziana Mittica